Il sogno, un punto di vista più alto…

Quando nella vita accadono eventi imprevisti, complicazioni inaspettate, che contraddicono le nostre più naturali aspettative, dopo una prima fase, del tutto comprensibile, di rabbia, frustrazione, o semplicemente difficoltà a tenere insieme le cose, il nostro cuore cerca spontaneamente una strada per comprendere, integrare e attraversare queste situazioni. Si tratta di una strada in salita, ma sempre possibile da percorrere, non da soli ma in cordata.

Come, ad esempio, è accaduto per Marco e Nadia che, sposatisi giovanissimi e con tante speranze nel cuore, hanno avuto un figlio nato prematuro e con buone probabilità di rimanere invalido. Che fare? Come affrontare situazioni così difficili? Dopo un primo periodo di dolore e affaticamento, aggravato dalle famiglie di origine che avrebbero voluto far visita al piccolo ma non potevano, Nadia e Marco hanno saputo affrontare quella salita, passo dopo passo, senza disperare e ora, Tommaso, loro figlio si è laureato, sposato e ha una vita normale.

Ora Nadia e Marco, ormai grandi, sanno proiettare uno sguardo nuovo e più ampio sulla loro vita, con una luce consolante e piena anche su quel periodo così faticoso ed in salita, che hanno dovuto affrontare ma che ora costituisce come una ferita che è diventata perla preziosa, dono di vita e testimonianza anche per altri.

Questo accade anche a Giuseppe nel vangelo che abbiamo ascoltato. All’inizio, di fronte alla contraddizione in cui si trova, estremamente imbarazzante, della sua promessa sposa già in cinta, si interroga con angoscia sulla migliore soluzione per uscire da quella situazione, senza far del male a lei e al contempo rispettando in qualche modo le esigenze della Legge. La sua giustizia si vede qui, nel fatto che Giuseppe non si limita ad eseguire la Legge in modo formale e insensibile, ma cerca una forma che salvaguardi la vita e il futuro di Maria, che poteva anche essere incolpevole di quella gravidanza. Certo, il suo sogno di costruire un futuro con Maria era ormai infranto, contraddetto…eppure…ecco un sogno è in grado di riaprire il desiderio di Giuseppe, in una direzione rinnovata, vincendo tutte le sue paure e spalancando allo stesso tempo un panorama vertiginoso. Il bambino è un dono di Dio e viene dallo Spirito Santo…egli salverà il suo popolo dai suoi peccati…lo chiamerai Gesù.

Fidandosi di questo sogno, che nasce dai suoi desideri più profondi, Giuseppe non ha paura di lasciarsi guidare e, attraversando la contraddizione, guadagna un punto di vista più ampio, più grande, più vero, capace di ricomprendere e rileggere anche la complessità, l’intrico, l’apparente contraddizione della vita. È il punto di vista di Dio e del compimento della Sua Parola: “la vergine concepirà e partorirà un figlio e a lui sarà dato il nome di Emmanuele…”

Giuseppe non ha paura di lasciarsi guidare dal sogno. Nella prima lettura, invece, Acaz ha paura e si chiude nelle sue alleanze securitarie, quelle con i potenti vicini Assiri, fingendo di non volere segni per non tentare Dio. In realtà il suo cuore è lontano dal credere e fidarsi di Dio e cerca rassicurazioni più “concrete”, secondo il suo punto di vista.

A Natale ormai alle porte siamo invitati a prendere una decisione sul punto di vista da adottare di fronte alla realtà: vogliamo la sicurezza concreta e la certezza che viene dai nostri calcoli di bottega, dal nostro buon senso dal corto respiro? Oppure cerchiamo davvero un punto di vista più alto, che non proviene da noi ma da Dio, e che si accorda meravigliosamente bene con quell’insondabile desiderio e stupore profondo che abitano il nostro cuore?

Trinità è esperienza concreta

Questa solennità rimane spesso confinata nella nostra mente come un concetto, un’idea, un’elaborazione teologica. Dio che è un’unica sostanza divina d’amore in tre persone. Ma questo cosa significa esattamente per noi, per le nostre esistenze?

Anzitutto di questo mistero facciamo esperienza nella nostra vita grazie allo spirito che, come dice Gesù nel vangelo di Giovanni, ci condurrà alla verità tutta intera. Ma questo non è detto che faciliti la nostra comprensione: infatti quale esperienza abbiamo noi dello Spirito Santo? Forse, tra le tre persone, è quella che più difficilmente sappiamo rappresentarci e comprendere. Eppure, è anche quella che concretamente ci permette di entrare in una dimensione nuova della realtà: dice Gesù, infatti: “prenderà del mio, di quello che io e il Padre possediamo e ve lo annuncerà”, ossia ci farà entrare nel mistero del rapporto tra il Padre e il Figlio.

Quindi torniamo alla domanda: come ne facciamo esperienza?

Io credo che ogni volta che dentro al nostro cuore si leva un grido di stupore, magari davanti ad un bellissimo paesaggio naturale, per esempio in alta montagna, dove tutto richiama alla maestà e grandezza di Dio, ecco che in quello stupore c’è una traccia dello Spirito che ha agito fin dall’inizio nella creazione, come sapienza che si diverte giocando come architetto del cosmo. Quando ci meravigliamo delle straordinarie corrispondenze armoniche dell’universo, come la fisica oggi che le fa scoprire, anche qui siamo a contatto, anche grazie all’azione dello Spirito, con un messaggio, una serie di informazione, una Parola pronunciata dal Padre fin dai primordi del tempo e che entra nella creazione plasmandola. Lo Spirito prende ciò che il Padre e il Figlio hanno in comune, nella creazione stessa del mondo, e ce li annuncia.

Ancora quando vedendo la storia del mondo e anche le vicende attuali, ci prende un moto di compassione e amore per i poveri, per le vittime, per le popolazioni stremate dalla guerra e dalla distruzione, come gli abitanti di Gaza oggi, e vorremmo fare qualcosa, intervenire, e ci mettiamo almeno anche solo a pregare per queste persone, nel nostro cuore sta lavorando lo Spirito Santo, che ci rivela Gesù abbandonato sulla croce in ogni uomo povero, nudo e impotente, che può solo sperare ed abbandonarsi all’amore di Dio, del Padre. Alla fine della storia non rimane nessuno Stato o regno o istituzione umana, per quanto potente possa essere. Rimane invece solo l’amore del Padre che fluisce potente dalla croce del Figlio, capace di risanare ogni ferita e irrigare di vita ogni deserto creato dall’uomo.

Vedete allora come la Trinità è una concretissima e onnipotente manifestazione di vita, che assorbe tutta la creazione e la storia degli uomini, e ci eleva ad uno sguardo più alto, più pieno, più comprensivo nei confronti della realtà.

La nostra stessa vita cambia forma e aspetto alla luce della Trinità. Sentiamo, proprio nei momenti di maggiore fragilità e senso di abbandono, una luce sgorgare da un punto profondo e inaccessibile del nostro cuore: quella luce, quella pace, quella consolazione è frutto dello Spirito, che ci mette in comunicazione con l’amore del Figlio e del Padre, così come si esprimono nella croce.

Anche la nostra vita sarà quindi una piena manifestazione dell’amore di Dio, non solo nei nostri talenti e nelle nostre conquiste, ma soprattutto nelle sconfitte e difficoltà, lì dove possiamo solo confidare nella potenza e nell’amore di Dio.

Il vuoto e l’amore: l’esperienza del Discepolo-che-Gesù-amava

Racconta lo storico ebreo Flavio Giuseppe che quando il triumviro Pompeo entrò a Gerusalemme con il suo esercito nel 63 a.C. volle entrare anche nel Tempio, sebbene fosse a lui proibito. Accedendo al Santo dei Santi, dove solo al sommo sacerdote è concesso entrare una volta all’anno, Pompeo si meravigliò molto perché il luogo più santo dell’ebraismo si presentava a lui come una stanza praticamente vuota. Le due statue dei serafini si affacciavano infatti su un luogo vuoto, che segnalava l’assenza dell’arca dell’Alleanza. Sembra che Pompeo abbia pensato che davvero questa divinità doveva aver abbandonato un luogo così vuoto e assente.

La medesima percezione di assenza e di vuoto doveva aver sollevato la domanda di Maria di Magdala, alla vista della mancanza del corpo di Gesù: “hanno portato via il mio Signore e non so dove l’hanno posto”, afferma Maria, identificando il Signore con il suo corpo morto e assente. Così anche Pietro entra per primo nel sepolcro e osserva le bende e il sudario piegato e riposto in un luogo a parte. Il suo sguardo è analitico e capace di soppesare gli indizi, fiutando l’improbabilità di un furto, dal momento che nessun ladro si sarebbe attardato a piegare e riporre il sudario in un luogo a parte; tuttavia anche Pietro rimane, per così dire, intrappolato da quel vuoto e da quel silenzio. Possibile che Dio si riveli nel vuoto e nell’assenza? Quale potrebbe essere il vero significato di quei segni?

Solo il Discepolo Amato è in grado, una volta entrato nel sepolcro, di vedere e credere. Il suo sguardo non rimane intrappolato e scandalizzato dal vuoto, dall’assenza, dalla mancanza, ma è in grado di trasformare proprio quel vuoto e quel silenzio in un segno e una parola capaci di riempire tutto lo spazio. È esattamente come la percezione di Isaia, nel tempio di Gerusalemme: egli nel vuoto del tempio coglie con gli occhi della fede la shekinah di Dio, la sua presenza-assenza regale, per cui sono sufficienti i lembi del mantello per riempire tutto.

Ma come fa il Discepolo Amato ad accedere a questa realtà? E perché proprio lui e non altri?

Il Discepolo Amato si ricorda della parola di Gesù: “nessuno ha un amore più grande di questo, dare la vita per i propri amici” e comprende che quel vuoto è attraversato e riempito da questa parola, in cui l’amore di amicizia è compiuto dal dono della vita, da un amore “agapico”, che fluisce senza ostacoli, comunicandosi oltre le barriere della morte. In questo amore c’è tutto l’eros e c’è tutta l’amicizia di una relazione umana, pienamente compiuta nell’assenza, nella libertà, nel lasciar andare. È questa Parola che riempie il silenzio e il vuoto e suscita il riconoscimento e la fede del Discepolo Amato. Perché proprio lui è in grado di giungere a questo punto e non ancora Pietro? Perché lui è l’Amato, ossia è costituito da quest’unico tratto d’amore, per cui la sua unica e vera identità è quella di essere destinatario di un amore di predilezione, unico ed indistruttibile. Quindi solo lui può riconoscere questa Parola d’amore, che risuona nel silenzio del sepolcro.

Egli è anche l’autore dello scritto evangelico, di quella Parola che si fa Scrittura ed è così capace di attraversare il vuoto e il silenzio dei tempi e delle generazioni, vincendo la sfida della morte.

Solo una Parola d’amore, capace di giungere alla pienezza del dono, vince la sfida della morte e si fa scrittura, vangelo, comunicazione piena di una vita senza fine, che oltrepassa tutte le barriere del tempo.

E questa Parola ha un nome: Gesù di Nazareth.

Egli è la Parola che ha piantato la sua tenda di carne in mezzo a noi.

Egli si è innalzato verso il Padre, attirando tutti gli uomini a sé.

Il Suo amore è fino al(la) fine, fino alla pienezza di tutto.

In Lui e nel Suo amore anche noi possiamo essere trasportati dalla potenza di questa Parola per una pienezza di vita che risuona già fin d’ora, nel silenzio dei nostri sepolcri.

Tommaso, il martire narcisista (Vangelo dell’Anno A, V Quaresima)

Viviamo un’epoca di narcisismo dilagante. Tutti i social e i contesti di comunicazione esaltano l’immagine, creando un’impressione di apparenza, lontana dalla realtà. Anche la politica ne è profondamente contaminata, perché non conta più la verità, ma l’arroganza di chi la spara più grossa, distorcendo con la propria immagine i fatti e la realtà. Perfino nella Chiesa si rischia di lavorare più per l’immagine che si dà agli altri, con i propri eventi e la propria “macchina funzionante”, che per la trasformazione dei cuori.

Anche Tommaso, il discepolo e l’apostolo di Gesù, che nel vangelo di Giovanni spesso interviene con forza, per far valere il suo punto di vista, sembra condizionato da questa tendenza un po’ narcisistica. Infatti quando capisce la decisione di Gesù di andare in Giudea da Lazzaro, affrontando il rischio di venire ucciso dai capi e dalle autorità di Gerusalemme, esplode in questa dichiarazione molto plateale: “andiamo anche noi a morire con lui”. La sua mentalità è quella dei martiri maccabei, combattenti valorosi che sacrificano perfino la loro vita in battaglia per la causa di Israele. È una visione che, malgrado il sacrificio della vita, suona molto gloriosa e, per certi versi, accattivante, come quella dell’adolescente che immagina la sua morte e il suo funerale, il pianto dei suoi amici e familiari e di come tutti ne tesserebbero le lodi! Ma è una visione irreale, narcisistica appunto. Si tratta di una malattia molto presente anche tra noi, nelle nostre comunità, quando immaginiamo il nostro futuro a partire dalle nostre strutture pastorali e associative e da ciò che possiamo “fare” noi per Gesù. Questa fede è illusoria e destinata a crollare di fronte ai primi frutti che non arrivano.

Tommaso, come tutti noi, è invitato a fare un passo in avanti di maturazione nel seguire Gesù. Non si tratta di fare qualcosa per lui e con lui, foss’anche morire in battaglia. Si tratta invece semplicemente di stare con lui, sperimentando la sua fragilità e il suo dolore per la morte dell’amico Lazzaro. Si tratta di condividere il suo mondo di affetti profondi, con la famiglia di Betania, con Maria, con Marta e Lazzaro e sentire tutta la densità umana della sua presenza, della sua condivisione, anche nel dolore e nella debolezza.

“Se tu fossi stato qui mio fratello non sarebbe morto”, dice Marta: è un rimprovero, sì, ma è anche un grande attestato di fede nei suoi confronti, fede che cresce fino al punto di riconoscerlo come il Cristo, il Figlio di Dio, colui che viene nel mondo. Accogliendo anche il mistero di una salvezza che non esclude la morte, ma che vi passa attraverso. Gesù quindi non evita il dolore, ma lo assume nel suo cuore; il suo pianto è insieme amore e dolore, congiunti senza separazioni. Solo attraversandoli Gesù può condurci al cuore della sua Parola di vita e di resurrezione.

Tommaso è quindi invitato a passare da una fede moralistica e autocentrata, ma illusoria, ad una fede molto più umana, vera, forte e integrata con la vita, capace di stare con Gesù e affidarsi a lui, sperimentandone la sua Parola di vita, anche dentro il dolore, la fragilità e l’impotenza, anche dentro l’impossibilità di comprendere, anche dentro la morte.

Soprattutto questa fede di Tommaso abbandona la pretesa di una riforma di Israele e delle sue istituzioni con le armi della strategia o del martirio. Non siamo chiamati a dare la vita per delle strutture, ma per amore delle persone. Ogni VERA riforma parte dalla vita, dalle relazioni, dalla costruzione di legami familiari, come discepoli di Gesù, dentro all’esperienza di una Parola che vince la morte condividendola fino in fondo.

Il cammino catecumenale e la sfida dell’integrazione affettiva – Etty Hillesum

Oggi contempliamo la pagina della Samaritana, perché la liturgia ci consente di scegliere le lettura dell’Anno A, per accompagnare le nostre quattro catecumene, Greta, Malikia, Greisi e Klotilda, nel cammino di preparazione al Battesimo. Il vangelo è dunque Gv 4, la donna di Samaria e l’incontro con Gesù.

Gesù chiede da bere alla donna, facendosi debole e bisognoso. Ha sete di essere amato. Di suscitare la sete della donna e di donarle l’acqua viva. Ha sete di suscitare in lei, come in ciascuno di noi, quel desiderio più profondo che è simbolizzato dall’acqua. In questa acqua che Gesù ci dona infatti c’è il desiderio più profondo del nostro cuore, capace di irrigare tutti i desideri e gli amori che si accendono e si sviluppano nella nostra vita.

Gesù non giudica la vita della donna: la aiuta a scoprire l’aspetto difensivo delle relazioni vissute fino a quel momento, il lato legato ad un bisogno che non si può mai saziare. Nei tanti mariti lei ha cercato protezione, affetto e riconoscimento, ha cercato sé stessa senza trovarsi mai pienamente. Gesù la aiuta a non scandalizzarsi della sua debolezza, a volersi bene, ad accogliersi nella sua ricerca spesso fallimentare, per approdare ad una meta più profonda.

Così Gesù aiuta così ciascuno di noi a passare attraverso la sua fragilità, la sua fatica, le sue crisi per scoprirvi una perla preziosa.  

Gesù conduce la donna ad andare oltre, a cercare un fondamento più profondo in sé stessa, nel proprio cuore, in un legame indistruttibile, con il cuore di Gesù. Si tratta della verità profonda di sé stessa, della sua identità fondamentale, come vera sposa, come figlia amata, come discepola prediletta. Una vocazione personale che nessuno mai potrà scalfire, perché è scolpita nella roccia di Dio. Gesù le fa scoprire ciò che lei sempre aveva desiderato, senza mai comprenderlo fino in fondo: un legame di adorazione del Padre, nello Spirito d’amore che conduce alla verità del Figlio.

La donna di Samaria mi ricorda molto Etty Hillesum. Donna ebrea olandese, molto distante da una prospettiva esplicitamente religiosa, afferma nel suo Diario la propria infelicità profonda, che è cresciuta in tutte le sue vicende affettive.  Non ha equilibrio e si sente come dispersa. L’amicizia con lo psicologo Julius Spier la introduce alla spiritualità e così lei comincia un cammino di maturazione profonda. Ella troverà la sua pace profonda proprio nelle vicende drammatiche dell’olocausto, giungendo a “salvare Dio” nel campo di transito di Westerbork, prima di morire ad Auschwitz. Proprio nel pieno della crisi della civiltà europea, il Diario di questa donna (pubblicato solo nel 1981) offre una prospettiva spirituale profonda, di riscatto dell’uomo e di Dio, capace di ridare fiducia all’umanità. Lei riscopre un’adorazione vera del Padre, nella struttura profonda della sua personalità, capace di vincere e oltrepassare perfino gli orrori del nazismo.

Oggi consegniamo il Padre Nostro alle nostre catecumene, che riceveranno il battesimo nella veglia Pasquale in duomo. È la preghiera che vi conduce alla radice del vostro essere, del vostro desiderio, della vostra vocazione personale, ad essere amati come figli e figlie di Dio. Che la preghiera del Padre possa accompagnare ciascuna di voi nella profondità del vostro desiderio, per incontrare il cuore di Gesù e dissetarvi nelle profondità del suo amore. E che questo amore vi conduca alla pienezza di vita, a scoprire quella fonte interiore che dà solidità e integrazione profonda al vostro cammino, anche dentro le sfide della vita e del nostro tempo.

Il coaching di Gesù, in quattro parabole

Si parla spesso di Gesù come Figlio di Dio, oppure anche come messia/Cristo, o anche come re o come profeta. O anche come sacerdote.

Parliamo poco di Gesù come sapiente. Anzi, più che sapiente, come la sapienza stessa, che abita l’uomo al punto da trasformarlo in sé stessa. Gesù non è solo un saggio, è la sapienza stessa di Dio nell’umanità. Ci fa capire a cosa è chiamato l’uomo, come può vivere se abitato dalla Sapienza e trasformato in Dio stesso.

Le frasi che Gesù pronuncia in questo discorso, nel suo stile parabolico, con degli esempi e degli aforismi, ci raccontano di una sapienza che non si esprime in modo tecnico, logico, arido, come farebbe l’intelligenza artificiale, ma con lampi di intuizioni profonde, capaci di esprimere qualcosa della loro potenza solo grazie a degli esempi e delle immagini.

La Sapienza di Gesù, quindi si esprime attraverso degli esempi, che dicono molto di più di quel che apparentemente significano. E che vogliono aiutarci a vivere bene, hanno quindi un obiettivo pratico. Costituiscono una sorta di coaching di Gesù.

Si tratta di quattro piccole parabole. Anzitutto quella dei due ciechi, che cadono entrambi nel fosso. Gesù sta dicendo che la sapienza ci conduce ad essere ciascuno maestro, per imparare, con i giusti strumenti, ad arrivare alla pace del cuore, alla piena realizzazione di noi stessi. La sapienza ha a che fare, quindi, con la nostra autoformazione: attraverso maestri e modelli buoni che il Signore ci ha dato nella vita, noi riceviamo esempi e strumenti per capire come orientare la nostra vita al bene e all’amore, come compiere desideri profondi che sono nel nostro cuore, come muoverci verso la vera pienezza di noi stessi. Nessuno però si può sostituire a noi in questo discernimento. Ognuno, ben preparato, con i giusti strumenti, sarà quindi maestro di sé stesso.

E quali sono questi strumenti?

Gesù ce li consegna con le restanti tre piccole parabole. Nella prima, la famosissima parabola della trave nell’occhio, Gesù ci fa capire che spesso i nostri giudizi sugli altri e sulla realtà sono condizionati dalle nostre distorsioni cognitive, che si radicano nelle nostre difese e nelle nostre ferite. È questa la trave. Per correggere il nostro sguardo, quindi, serve un percorso di guarigione del cuore, che ci aiuti a prendere consapevolezza delle nostre ferite, anche profonde, per impregnarle dell’amore, della tenerezza, della stima che provengono da Dio. Questo significa togliere la trave. Solo allora saremo liberi nello sguardo e capaci di seguire la via dell’amore nel guardare e togliere la pagliuzza dall’occhio del fratello. Guariti diventiamo guaritori. O forse, più esattamente, potremmo dire, visto che il processo di guarigione non finisce mai nella vita, mentre veniamo guariti da Lui, aprendoci alla sua grazia, permettiamo agli altri di entrare in questo processo di guarigione.

Se questo sta davvero accadendo nella nostra vita, allora si apre un nuovo scenario, descritto dalla terza e dalla quarta parabola. Come capire dove orientarci? Come comprendere ciò che fa male e distinguerlo da ciò che fa bene?  Dai frutti, ci dice Gesù. Se siamo orientati verso il bene, possiamo comprendere dal nostro cuore, a partire dai nostri pensieri, ciò che porta un frutto buono, di pace, consolazione, desiderio di bene, crescita nella speranza e nell’amore e ciò che porta un frutto cattivo, di aridità, desolazione, rigidità, ansia, agitazione, oscurità ecc. Se evitiamo di prendere una strada dove sentiamo desolazione, ci risparmieremo l’80 per cento dei nostri errori.

Il buon tesoro è allora qualcosa che proviene dal cuore, è ciò che dal cuore sovrabbonda che dobbiamo seguire, dalla parte più vera e profonda di noi. Ed ecco la quarta parabola. Da lì scaturisce un di più, una pienezza, che trova riscontro nella vita, anche attraverso la fatica e il dolore che sono come l’inevitabile scalpello capace di purificare e perfezionare il nostro desiderio buono e bello.

Gesù, maestro di sapienza e sapienza lui stesso, ci mostra che siamo fatti per un desiderio che trova la sua pienezza solo dentro ad un continuo lavoro, una continua ascesi, salita, che solo il suo Amore rende possibile.

È come una scala mobile, noi possiamo e dobbiamo salire con le nostre forze, per tenerci in piedi e collaborare col nostro passo, ma la forza principale, che ci trascina su, quella del desiderio profondo, che viene dal Suo amore, quella proviene da Lui.

La vocazione in cinque passi (Omelia V TO Anno C)

La liturgia di oggi ci invita a meditare un po’ sulla cosiddetta “vocazione”. Ne abbiamo un’idea tanto grandiosa quanto mancante: la vocazione per essere da Dio, secondo noi, dovrebbe essere monolitica, sicura come una pietra, inscalfibile, data una volta per tutte e senza dubbi e tentennamenti; dall’altra parte questo modo di concepire la vocazione è completamente mancante della nostra umanità, con le sue fragilità e dubbi, con le sue alternanze e progressi, con le sue decisioni e i conflitti.

Ne fa esperienza il profeta Isaia, che sente di essere un uomo dalle labbra impure, cioè incapace di stare davanti alla bellezza e perfezione d’amore propria di Dio e ha bisogno di essere purificato da Dio stesso. Ne fa esperienza anche Pietro, che chiede a Gesù di allontanarsi perché ha paura della propria fragilità.

Ma da dove nasce la vocazione e come si presenta alla nostra attenzione umana?  Con quali passaggi si manifesta?

Alla luce del vangelo di oggi, possiamo dire che la vocazione si esprima attraverso cinque passaggi, che procedono circolarmente e sempre in avanti, come in una spirale.

Il primo passo è la sua origine. Essa nasce anzitutto da una voce che arriva un po’ come dall’esterno, risuonando attraverso un invito, una proposta, un’esperienza che ci mette in contatto con l’altro e con Dio. Così accade a Pietro che, in un giorno qualsiasi, dopo una nottata di lavoro infruttuoso, risponde all’invito di questo sconosciuto maestro di poter parlare alla gente dalla sua barca, per evitare di essere schiacciato dalla folla. Pietro offre la sua barca, senza pensarci su. Il punto di partenza viene quindi dalla realtà della vita, che chiede a Pietro un’ospitalità, un’attenzione, e lo invita a farsi attento alla sua Parola.

In un secondo passaggio possiamo immaginare che anche Pietro, così come tutta la gente, si metta in ascolto della Parola del maestro e ne ricavi gioia, piacere, desiderio di ascoltare ancora: ne sente tutta l’autorità, a partire dalle risonanze interiori che questa Parola gli provoca. È una voce esterna, sicuramente, ma anche una voce interiore, che lo spinge a fidarsi di questa parola, e lo prepara a rispondere positivamente ad un invito tanto strano quanto insolito: pescare in pieno giorno! “Sulla tua parola, getterò le reti”.

Quindi nel terzo passaggio la vocazione, quando c’è consonanza interiore e si avverte un desiderio profondo, richiede anche uno sbilanciamento, un buttarsi anche lì dove non ci sono certezze, anzi sembrerebbe tutto un po’ paradossale e nuovo. Qui è in gioco la nostra libertà, di costruire qualcosa di nuovo, che non sappiamo ancora, di fidarci di un disegno che ancora non conosciamo e che saremo però noi a costruire, insieme con Dio.  

Quando si da ascolto a questo e arrivano i primi frutti, può esserci gioia, pace, ma anche molto stupore e, se si sente chiaramente che ciò che arriva non dipende da noi, può subentrare anche un po’ di paura, unita ad un profondo senso di indegnità. È il quarto passaggio della vocazione ed è quello che accade a Pietro, che dopo la pesca miracolosa è talmente sbalordito da cadere ai piedi di Gesù e chiedergli di allontanarsi: lo prende la paura e il senso della propria indegnità, del proprio peccato, della propria fragilità. È solo lì, quando si prende consapevolezza di tutta la propria mancanza umana e indegnità, quando cadono tutte le maschere e si rimane nella completa debolezza, senza potersi più difendere, che allora risuona nel cuore l’appello più profondo della vocazione, della chiamata: “non temere, sarai pescatore di uomini”. È lì, nel quinto passaggio della vocazione, che è il culmine ed è anche un nuovo inizio, che comprendiamo che tutto questo non viene da noi, ma da qualcun altro, eppure che è in grado di corrispondere alla parte più profonda e vera di noi, rispettando e onorando la nostra umanità e il nostro percorso.

Solo così i pescatori potranno diventare “pescatori di uomini”, capaci di rispettare profondamente l’umanità e la libertà dell’altro e al contempo testimoniare una strada di pienezza e di amore.

Profeti e profetesse (Candelora)

Spesso di fronte alle notizie cattive che circolano nel mondo e alle difficoltà che possiamo vivere nella nostra vita familiare e personale, ci chiediamo che cosa stiamo attendendo o sperando. Abbiamo infatti l’impressione che le nostre attese possano essere continuamente smentite dalla realtà intorno a noi.

Simeone ci mostra quanto questa impressione, un po’ depressiva, possa essere smentita dalla presenza di Dio nel nostro cuore e dalla realtà vera intorno a noi.

Egli è descritto come un uomo giusto e pio, che ha quindi una caratteristica di relazione buona e intensa con gli altri (giustizia) e di connessione profonda con Dio (pio). Tutto questo è generato in lui dall’azione dello Spirito Santo, che lo riempie e lo consegna ad un’attesa reale e non immaginaria. Egli non si rassegna ad abbassare l’asticella delle aspettative del Regno di Dio e crede ancora nella consolazione di Israele. Cioè crede nel fatto che il Signore sa mantenere le sue promesse di vita, anche in modo apparentemente inaspettati ed inusuali e questa sua fede lo mantiene agganciato alla realtà, gli impedisce di chiudersi nelle sue dinamiche egocentriche, nei suoi risentimenti, nelle sue disillusioni.

Lo Spirito Santo gli offre insomma gli occhiali giusti per leggere la realtà e lo spinge al momento giusto, ad incontrare Gesù, il messia. Ci saranno state centinaia di famiglie quel giorno al Tempio di Gerusalemme, con altrettanti bambini, e famiglie ben più appariscenti e con offerte molto più generose di quella fatta dalla povera famiglia di Nazareth, per acquistare una coppia di tortore o di giovani colombi. Eppure lo Spirito gli offre le lenti giuste per riconoscere il messia, in quel piccolo segno, in quel bambino, in quella famiglia non particolarmente “riconoscibile” tra le tante altre. Così accade nella nostra vita, se ci esercitiamo a riconoscere con lo Spirito: segni semplici e ordinari, di vita quotidiana, diventeranno per noi presenze messianiche, segnali e frecce che lo Spirito traccia per noi ogni giorno. Quella persona, quel dialogo, quel sorriso, quell’incontro, al lavoro, a scuola, con gli amici: ogni conversazione, se abbiamo le antenne ben orientate, può essere occasione per cogliere questa presenza, questa freccia, questo segno, che punta sempre oltre e apre il cuore al presente e al futuro, con speranza.

L’altro personaggio, non meno importante, in questo contesto messianico, è Anna, profetessa. Luca è molto attento al ruolo della donna e offre ad Anna il titolo, un po’ altisonante, di profetessa, che indica la capacità di “riconoscimento” nello Spirito, nella rilettura della Parola alla luce della vita e del presente. Lei ha questo ruolo di indicare il compimento, la pienezza, agli altri, che attendono il “riscatto” di Gerusalemme. Se nel profeta Isaia Gerusalemme è la vedova schiava, che viene riscattata e sposata finalmente da Dio, Anna ha il compito di ridestare questa vocazione della città, questa sua speranza di riscatto e di liberazione, indicandone i segni presenti. A me pare che questo ruolo della donna sia oggi molto attuale: rendere presenti, manifestare tutti i segni di liberazione, di crescita umana, di riscatto da situazioni di chiusura, marginalità, violenza, in vista di una società più capace di cura e di accoglienza. Abbiamo bisogna di una nuova profezia al femminile, nella Chiesa e nella società, che parta dal disagio e dalle difficoltà, per ricucire fili di speranza e riscatto. Penso soprattutto alla situazione delle famiglie e dei bambini e preadolescenti di oggi. In parrocchia siamo a contatto, un po’ drammaticamente, con il disagio, la fragilità, le dinamiche oppositive e le difficoltà di ascolto degli adolescenti di oggi.

Abbiamo bisogno di una nuova profezia al femminile, e di una nuova paternità al maschile, per ritessere relazioni feconde e creare insieme reti e contesti di cura e accompagnamento.

Sperare un 2025 migliore?

Quando ci scambiamo gli auguri di buon Anno, in tutto il mondo siamo soliti augurare un buon anno che sopraggiunge, quest’anno il 2025, e aggiungiamo che sia migliore del precedente, il 2024. Questa modalità è tanto comune quanto, purtroppo, formale e logorata dall’uso. La verità è, purtroppo, che questo augurio nasconde invece la paura che l’anno che viene sia peggio del precedente. A ben guardare, anche il 2024 non è stato affatto migliore del 2023: le guerre non sono finite o attenuate, anzi, semmai, sembrano peggiorate e intorno a noi risuonano le sinistre grancasse del riarmo.  Tutte queste spese militari sono poi fatte a discapito – certamente senza dirlo esplicitamente – della spesa sociale, con un aggravarsi delle diseguaglianze e delle povertà, in Italia, in Europa, ma anche nel sud come nel nord del mondo. Certo, c’è stato anche tanto bene, poco visto e mal comunicato, nel 2023 e nel 2024, ma di sicuro non è possibile quantificare davvero in quale dei due anni il bene sia stato maggiore.

L’augurio allora forse non regge, non tanto perché le cose vadano di male in peggio – anche questo pessimismo infatti è ideologico – quanto piuttosto perché la nostra speranza, come cristiani, è molto più radicale e (e molto più reale) di quella contenuta in auguri preconfezionati. Essa infatti non si basa su un auspicio immaginario, ma su una realtà che possiamo sperimentare ogni giorno e che è al cuore della speranza cristiana: il bene cresce e si manifesta proprio lì dove si è manifestato il male, nelle pieghe più tortuose e difficili della vita, personale e sociale. Sì, perché il male vuole nascondere e mistificare un bene che è precedente e che ha fin dall’inizio già vinto la grande battaglia: esso non può quindi che riavvolgere il male e trasformandolo da dentro.

Lo vediamo anche nelle vicende della nostra cara famiglia di Nazareth. Non chiamiamola Santa Famiglia se questo aggettivo ce la rende lontana e inaccessibile…è una famiglia normale, che ci è vicina proprio nella sua problematicità. Anche Maria è certamente Madre di Gesù e Madre di Dio, ma questo non ce la deve rendere più lontana: lei ha sperimentato come noi la difficoltà, la fatica, il dolore, la tentazione, proprio lì dove più voleva rivelarsi il mistero di Dio.

Possiamo soltanto immaginare il travaglio di questa maternità, vissuta nell’intimità con Giuseppe, un uomo che, pur nella sua rettitudine, non poteva non provare dubbi, delusioni, reticenze. Aggravate dal peso di un clan – peso che possiamo solo immaginare – capace di avvolgere Maria nella rete delle parole mezze dette, dei silenzi allusivi, degli imbarazzi malcelati.

Ebbene tutto questo male che ha cercato di inquinare, offuscare, indebolire il bene di una Parola che fin dall’origine era in procinto di entrare del mondo e che finalmente aveva trovato un cuore libero e disponibile nel rispondere di sì, viene poi radicalmente trasformato e ribaltato. Il bambino viene concepito e nasce, secondo la Parola pronunciata dall’angelo a Maria, e i pastori possono fare esperienza proprio di quel segno – il bambino adagiato in una mangiatoia – che la Parola di Dio aveva loro annunciato. Lontani da Nazareth e dalle logiche opache del clan, a Betlemme, nella città di Davide, i pastori – gli ultimi della terra – sono la nuova famiglia che avvolge, non più di dubbi e ombre, ma di tenerezza e lodi, il bambino appena nato.

La gioia più grande di Maria, la madre, è vedere che le Parole di Dio corrispondono ad una vita che scorre profonda, nella carne, e che germoglia nella lode. E che i desideri che Dio ha messo nel cuore fioriscono non solo per sé, ma anche per gli altri, in modo inaspettato, proprio dentro alla vita, attraversandone le parti più oscure e contraddittorie.

Come? Questo è un mistero, come lo è stato per Maria diventare mamma. È qualcosa che non si può dimostrare, ma solo descrivere se lo si è, almeno un po’, vissuto. È il mistero di un pianto serale, che si trasforma nella gioia mattutina. È  lo scambio che avviene nel Bambino: il pianto dell’uomo diviene quello del Dio bambino e il sorriso di Dio diventa quello dell’uomo che contempla.

La saggezza che viene dall’alto

Come diventare saggi? Oggi abbiamo un po’ perso questa aspirazione e questa domanda, perché abbiamo sostituito la saggezza con la scienza e pensiamo di poter dare una risposta ad ogni cosa ricorrendo agli esperti. In questo modo però finiamo per delegare ad altri la nostra responsabilità su tanti aspetti della vita, su cui invece, è importante mantenere una libertà interiore: ne abbiamo avuto una prova durante il Covid, quando la scienza e la politica sono arrivate a normare la vita quotidiana delle persone, senza lasciare margini di autonomia.

La saggezza, intesa come la continua ricerca del bene e del bello nella nostra vita, è ancora necessaria ed è l’unica possibilità per trovare quell’unità interiore così necessaria in un mondo tanto frammentato dai metodi scientifici. La Bibbia ci presenta la saggezza non solo come una ricerca e uno sforzo dell’uomo, ma anche come un dono da parte di Dio. Anzi secondo l’immagine che il libro dei proverbi ci offre, la sapienza prepara un banchetto per noi, pieno di vino e di pane nutriente e poi ci invita a partecipare, gratuitamente. Non si tratta di un cibo che ci riempie fino alla sazietà, oppure di un prodotto culinario che ci inebria fino a darci dipendenza. Piuttosto è un cibo che ci nutre quanto basta ogni giorno, come una manna che discende dal cielo e che noi troviamo ogni giorno per aiutarci a camminare quel giorno, ma che non si può accumulare, né può produrre dipendenza. Non è una ricetta che pretende di offrire una soluzione per ogni situazione e nemmeno una formula magica che risolve i nostri problemi. È solo ed esclusivamente quel cibo di amore, speranza, fiducia, energia interiore, comprensione profonda, che ci aiuta a vivere con umanità e dedizione le nostre giornate, senza il bisogno di addormentare la nostra coscienza in ciò che ci annebbia.

Lo ripete l’autore della lettera agli Efesini, con altre parole, ma il concetto è il medesimo: non ubriacatevi di vino, ma siate ricolmi dello Spirito, intrattenendovi con Salmi, inni e canti ispirati. Il vino che fa perdere il controllo può essere associato a tutti quei beni, materiali e relazionali, che mi intrappolano, addormentano la mia coscienza e mi portano ad una sostanziale dipendenza. La nostra società è costruita per generare dipendenza, attraverso la profilazione dei nostri bisogni, anche inconsci, che l’uso dello smartphone oggi rende possibile: siamo terminali di una gigantesca macchina produttrice di beni, che ci manipola e ci addormenta, promettendo di darci ogni ora quello di cui abbiamo bisogno, per mantenere alto il livello della nostra dopamina. Ma così ci addormentiamo e perdiamo definitivamente il senso della nostra libertà e delle scelte che ci portano verso l’alto, magari difficili, magari incomprese, ma in cui si ritrova il nucleo più profondo della persona. Allora questa lettera ci propone un’altra ebbrezza, non quella della dopamina, ma quella dello Spirito, che non annulla la nostra coscienza e la nostra razionalità, ma anzi le valorizza pienamente. La saggezza è quindi il frutto di questa sobria ebbrezza dello Spirito, che è una pace e serenità profonda, che non ci abbandona mai, anche nelle oscillazioni del nostro umore. Questo frutto è davvero un cibo, una manna quotidiana. Ma come potere vivere questa pace, questa vita, così profonda?

Ce lo assicura Gesù nel vangelo, identificandosi lui stesso con questa sapienza discesa dal cielo, con questo cibo che è un pane misterioso. È la sua carne, ossia la sua umanità, che si rivela nell’amore con cui si è donato, offerto a noi sulla croce, a nutrirci così profondamente. Se ci nutriamo di lui, della sua persona, del suo stile, delle sue parole, dei suoi gesti, delle sue scelte, questo cibo finisce per assimilarci a sé stesso, a donarci quella vita che lo caratterizza, e che è la vita eterna. In alcuni casi, davvero solo la fede ci da questa forza di uscire dalle nostre schiavitù. Come Riccardo, che aveva una dipendenza da gioco, da cui non riusciva a liberarsi e che lo stava allontanando dai propri cari e dal proprio lavoro…rendersi conto del problema, rivolgersi agli esperti, è stato importante, necessario, ma non sufficiente. Solo la fede, solo affidarsi totalmente a Dio e sentire nel suo cuore la radice della sua libertà, lo ha riaperto definitivamente alla vita e alla gioia!